domenica 31 dicembre 2017

Cristo il migrante

Camminano soli per le nostre strade, talvolta in coppia, qualche altra volta in gruppo. Quasi tutti giovani, la maggior parte di essi di sesso maschile e quando capita di incrociarne qualcuno, nella nostra mente assorta pare affacciarsi qualche pensiero distratto: “Mi sa che nelle vicinanze deve esserci un centro di accoglienza per migranti”.
Africani, qualche mediorientale, ma tutti di colore. Vestono con magliette colorate, cappellini alla moda e talvolta, anche d’inverno, calzano pantofole. Qualcuno in bici, più spesso percorrono lunghi tratti a piedi, per arrivare chissà dove. Altre volte sono in piccoli gruppi, seduti in silenzio alla fermata di un bus. Raramente qualcuno all’uscita di un bar, per elemosinare qualche spicciolo.
Penso spesso che quando Cristo ritornerà, sarà un migrante. Quando ritornerà, si confonderà tra di loro e il mondo occidentale non lo riconoscerà, perché scambierà il suo Signore per uno di loro.
Non è una novità, non c'è scandalo in tutto questo, perché in quel Natale di 2021 anni fa erano dei veri e propri migranti Miriam e Josef, appartenenti alla stessa tribù di David, provenienti dalla Galilea dei goym, da una terra di barbari, di gente contaminata dalla assidua frequentazione dei pagani, considerati impuri dai lontani giudei osservanti, degli “imbastarditi”[1].
E noi europei, italiani, di antiche radici cristiane, per i quali Babbo Natale è ormai divenuto molto più celebre di quel Gesù bambino che il Natale celebra, finalmente, proprio come quei giudei di Betlemme di 2021 anni fa, in questi giorni di tanto in tanto stiamo avendo la fortuna di incrociare il loro sguardo, e come spesso accade quando si incrocia lo sguardo di chi poi farà la storia, pieni di noi, persi nei nostri affanni, sprofondati nel grigiore delle sicurezze sulle quali ci arrocchiamo, non abbiamo dato nessun peso a questo incontro, che resterà fugace, insignificante, senza senso.

Non ci sfiorerà mai l’idea che quei ragazzi, che di tanto in tanto distrattamente incrociamo per strada, sono quelli che hanno in mano la storia, sono quelli che portano con sé il fascino di suoni e di colori che non abbiamo mai udito né conosciuto, l’odore lontano della terra dei villaggi che hanno calpestato con i piedi scalzi nei giorni di festa, quando si corre a cantare l’alleluja come si canta in quelle chiese, ballando al ritmo di quel palpito ossessivo, ebbro di gioia. Quando incroceremo di nuovo il loro sguardo non penseremo alla polvere delle città che hanno respirato, al caldo torrido che gli ha bruciato la pelle, all’acqua salata di quel mare ostile che gli ha sferzato il viso, al dolore che hanno sentito salire col loro sangue, all’ingiustizia e alla rabbia che hanno mangiato insieme a quei miseri avanzi che noi occidentali grassi e opulenti gli abbiamo lasciato.

Non penseremo che quello sguardo che incroceremo è lo sguardo di quel Cristo che noi cristiani, solo a parole, dichiariamo di adorare, perché ognuno di essi porta con sé una storia sacra, una storia di sofferenza, di dolore, di umanità profonda, di umanità negata: ognuno di essi porta con sé la croce.
Mai nessuno di noi oserà pensare che quei ragazzi silenziosi alla fermata del bus sono ciò che di più sacro si possa trovare in questo mondo, perché arrivati qui dal “paese delle lacrime”. Molti di noi, pieni di un cristianesimo bigotto, solo di facciata, si scandalizzeranno e troveranno sacrilega l’idea che quei ragazzi non sono altro che il crocifisso da esporre in ogni aula, nei tribunali e nei luoghi pubblici, per indicare all’occidente ciò che ha smarrito, l’uomo vero, colui che ha osato osare, tentare il riscatto, la fuga dal degrado, dalla negazione dell’umanità.
Fu quando mi ritrovai confinato in quel remoto paesino abruzzese che mi capitò di abitare qualche mese proprio accanto ad uno di quei centri. Ce n’erano un centinaio ospitati lì, e proprio lì mi è successo per la prima volta che uno sconosciuto, passando, mi salutasse. 
Sì, qualche altra volta mi è già successo con un bambino.
- Ciao!
I bambini salutano tutti, anche gli sconosciuti, e non perché siano ingenui. Salutano tutti perché sono bambini, sono curiosi, sanno che è giusto, sentono che è normale, ed è pure divertente sentirsi rispondere con un sorriso, perché quel sorriso è la risposta al mio stare lì, al fatto che ci sia anch’io, al mio essere nel mondo; quel sorriso è la conferma che anche io gioco la mia partita in questo mondo, che faccio parte di questa squadra, e i miei compagni di squadra, salutandomi, me lo riconoscono.
Salutare così, senza conoscersi, significa non avere ancora costruito sovrastrutture attorno al proprio sé, essere così come si è, non indossare maschere.
Più volte mi è capitato mentre passeggiavo. Quei ragazzi erano bambini, come bambini erano quei due ragazzi, Miriam e Josef, migranti di Nazareth, dal saluto spontaneo, fresco, senza costrutti, spoglio da false impalcature.
- Ciao.
La mia speranza, il mio augurio è che in questo tempo liturgico di Natale e soprattutto in occasione del nuovo anno solare, ognuno di noi riesca a conquistare quella spontaneità, la stessa spontaneità dei migranti oggi ospiti delle metropoli occidentali, la stessa freschezza di quei migranti di Nazareth, la spontaneità di quel bambino che poi nacque di lì a qualche giorno, migrante figlio di migranti, e che tutti noi oggi adoriamo come Signore, ma che se avessimo incontrato allora, avremmo guardato con indifferenza, distrattamente, e giudicato poco più che un soldo di cacio. 
Auguro a tutti noi di riuscire a gioire con la stessa gioia di quei ragazzi che in quei mesi, da quella casa di quel paesino abruzzese nella quale mi ero rinchiuso a studiare, ogni giorno vedevo ballare.
E auguro a tutti i migranti, ospiti sacri della nostra terra, di non perdere mai quello sguardo, quel saluto, quello spirito. 
Sono convinto che, col tempo, l’occidente vi spingerà a guardare sottecchi, a sospettare, ad usare lenti che voi non avete mai indossato per guardare l’altro. Il rischio è che un giorno perderete la voglia di ballare, perché l’occidente non balla, ma si sballa, per fuggire da questa vita. L’occidente non suona gli djambas, non canta l’alleluja come si canta nelle vostre chiese, perché le messe, da noi, sembrano funerali.
È da tempo, ormai, che la nostra fede non sa più gioire, così come gioisce con voi. È da tempo, ormai, che il cristianesimo occidentale non celebra più messe, ma il requiem di Gesù Cristo.
Il vecchio occidente, stanco, troppo serio, triste come a un funerale, è da tempo che vi aspetta.

Venite a portare il vostro palpito ossessivo, ebbro di gioia, venite a disperdere questo corteo funebre, vi prego: venite a portarci la vita.


[1] Cfr. S. Messina, Credenti o credibili? Giorno per giorno con il vangelo di Matteo, Effatà, Cantalupa (To) 2013,  p. 38.

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