Camminano soli per le nostre strade, talvolta in coppia,
qualche altra volta in gruppo. Quasi tutti giovani, la maggior parte di essi di
sesso maschile e quando capita di incrociarne qualcuno, nella nostra mente
assorta pare affacciarsi qualche pensiero distratto: “Mi sa che nelle vicinanze
deve esserci un centro di accoglienza per migranti”.
Africani, qualche mediorientale, ma tutti di colore.
Vestono con magliette colorate, cappellini alla moda e talvolta, anche
d’inverno, calzano pantofole. Qualcuno in bici, più spesso percorrono lunghi
tratti a piedi, per arrivare chissà dove. Altre volte sono in piccoli gruppi,
seduti in silenzio alla fermata di un bus. Raramente qualcuno all’uscita di un
bar, per elemosinare qualche spicciolo.
Penso spesso che quando Cristo ritornerà, sarà un migrante.
Quando ritornerà, si confonderà tra di loro e il mondo occidentale non lo
riconoscerà, perché scambierà il suo Signore per uno di loro.
Non è una novità, non c'è scandalo in tutto questo, perché
in quel Natale di 2021 anni fa erano dei veri e propri migranti Miriam e Josef,
appartenenti alla stessa tribù di David, provenienti dalla Galilea dei goym,
da una terra di barbari, di gente contaminata dalla assidua frequentazione dei
pagani, considerati impuri dai lontani giudei osservanti, degli “imbastarditi”[1].
E noi europei, italiani, di antiche radici cristiane, per i
quali Babbo Natale è ormai divenuto molto più celebre di quel Gesù bambino che
il Natale celebra, finalmente, proprio come quei giudei di Betlemme di 2021
anni fa, in questi giorni di tanto in tanto stiamo avendo la fortuna di
incrociare il loro sguardo, e come spesso accade quando si incrocia lo sguardo
di chi poi farà la storia, pieni di noi, persi nei nostri affanni, sprofondati
nel grigiore delle sicurezze sulle quali ci arrocchiamo, non abbiamo dato
nessun peso a questo incontro, che resterà fugace, insignificante, senza senso.
Non ci sfiorerà mai l’idea che quei ragazzi, che di tanto
in tanto distrattamente incrociamo per strada, sono quelli che hanno in mano la
storia, sono quelli che portano con sé il fascino di suoni e di colori che non
abbiamo mai udito né conosciuto, l’odore lontano della terra dei villaggi che
hanno calpestato con i piedi scalzi nei giorni di festa, quando si corre a
cantare l’alleluja come si canta in quelle chiese, ballando al
ritmo di quel palpito ossessivo, ebbro di gioia. Quando incroceremo di nuovo il
loro sguardo non penseremo alla polvere delle città che hanno respirato, al
caldo torrido che gli ha bruciato la pelle, all’acqua salata di quel mare
ostile che gli ha sferzato il viso, al dolore che hanno sentito salire col loro
sangue, all’ingiustizia e alla rabbia che hanno mangiato insieme a quei miseri
avanzi che noi occidentali grassi e opulenti gli abbiamo lasciato.
Non penseremo che quello sguardo
che incroceremo è lo sguardo di quel Cristo che noi cristiani, solo a parole,
dichiariamo di adorare, perché ognuno di essi porta con sé una storia sacra,
una storia di sofferenza, di dolore, di umanità profonda, di umanità negata:
ognuno di essi porta con sé la croce.
Mai nessuno di noi oserà pensare
che quei ragazzi silenziosi alla fermata del bus sono ciò che di più sacro si
possa trovare in questo mondo, perché arrivati qui dal “paese delle lacrime”.
Molti di noi, pieni di un cristianesimo bigotto, solo di facciata, si
scandalizzeranno e troveranno sacrilega l’idea che quei ragazzi non sono altro
che il crocifisso da esporre in ogni aula, nei tribunali e nei luoghi pubblici,
per indicare all’occidente ciò che ha smarrito, l’uomo vero, colui che ha osato
osare, tentare il riscatto, la fuga dal degrado, dalla negazione dell’umanità.
Fu quando mi ritrovai confinato in
quel remoto paesino abruzzese che mi capitò di abitare qualche mese proprio
accanto ad uno di quei centri. Ce n’erano un centinaio ospitati lì, e proprio
lì mi è successo per la prima volta che uno sconosciuto, passando, mi
salutasse.
Sì, qualche altra volta mi è già
successo con un bambino.
- Ciao!
I bambini salutano tutti, anche gli
sconosciuti, e non perché siano ingenui. Salutano tutti perché sono bambini,
sono curiosi, sanno che è giusto, sentono che è normale, ed è pure divertente
sentirsi rispondere con un sorriso, perché quel sorriso è la risposta al mio
stare lì, al fatto che ci sia anch’io, al mio essere nel mondo; quel sorriso è
la conferma che anche io gioco la mia partita in questo mondo, che faccio parte
di questa squadra, e i miei compagni di squadra, salutandomi, me lo riconoscono.
Salutare così, senza conoscersi,
significa non avere ancora costruito sovrastrutture attorno al proprio sé,
essere così come si è, non indossare maschere.
Più volte mi è capitato mentre
passeggiavo. Quei ragazzi erano bambini, come bambini erano quei due ragazzi,
Miriam e Josef, migranti di Nazareth, dal saluto spontaneo, fresco, senza
costrutti, spoglio da false impalcature.
- Ciao.
La mia speranza, il mio augurio è
che in questo tempo liturgico di Natale e soprattutto in occasione del nuovo
anno solare, ognuno di noi riesca a conquistare quella spontaneità, la stessa
spontaneità dei migranti oggi ospiti delle metropoli occidentali, la stessa freschezza
di quei migranti di Nazareth, la spontaneità di quel bambino che poi nacque di
lì a qualche giorno, migrante figlio di migranti, e che tutti noi oggi adoriamo
come Signore, ma che se avessimo incontrato allora, avremmo guardato con
indifferenza, distrattamente, e giudicato poco più che un soldo di cacio.
Auguro a tutti noi di riuscire a
gioire con la stessa gioia di quei ragazzi che in quei mesi, da quella casa di
quel paesino abruzzese nella quale mi ero rinchiuso a studiare, ogni giorno
vedevo ballare.
E auguro a tutti i migranti, ospiti
sacri della nostra terra, di non perdere mai quello sguardo, quel saluto,
quello spirito.
Sono convinto che, col tempo,
l’occidente vi spingerà a guardare sottecchi, a sospettare, ad usare lenti che
voi non avete mai indossato per guardare l’altro. Il rischio è che un giorno
perderete la voglia di ballare, perché l’occidente non balla, ma si sballa, per
fuggire da questa vita. L’occidente non suona gli djambas, non canta l’alleluja come
si canta nelle vostre chiese, perché le messe, da noi, sembrano funerali.
È da tempo, ormai, che la
nostra fede non sa più gioire, così come gioisce con voi. È da tempo,
ormai, che il cristianesimo occidentale non celebra più messe, ma il requiem di
Gesù Cristo.
Il vecchio occidente, stanco,
troppo serio, triste come a un funerale, è da tempo che vi aspetta.
Venite a portare il vostro palpito
ossessivo, ebbro di gioia, venite a disperdere questo corteo funebre, vi prego:
venite a portarci la vita.
[1] Cfr. S. Messina, Credenti o credibili? Giorno per giorno con il vangelo di Matteo,
Effatà, Cantalupa (To) 2013, p. 38.